Memorie sul...pegging
Non lo trovo molto sano psicologicamente. Ma che schifezza è? Se lo vuoi, c’hai qualcosa che non funziona. Il mio culo è exit only. È come andare con una trans. È una perversione. È una cosa da deviati. È da ricchioni.
Ecco alcune delle risposte che ho collezionato interrogando i miei amici eterosessuali su un tema bollente: il pegging.
Per i non addetti ai lavori, questo termine, coniato nel 2001 da Dan Savage, indica una pratica sessuale nella quale la donna, munita di strap-on, sodomizza l’uomo (sempre per i neofiti: lo strap-on è una cintura fallica, cioè con un dildo attaccato; esistono anche i modelli strap-less, sicuramente più raffinati e più gradevoli esteticamente, ma per tenerli su serve un pavimento pelvico di un certo livello). Insomma, pegging significa che lei lo mette in quel posto a lui.
La pratica, in sé, non è certo nuova, infatti è possibile rinvenirne traccia anche nella cultura dell’Antica Grecia, dove gli strumenti del piacere anale maschile si chiamavano olisboi ed erano realizzati in cuoio. Da allora ne è passato di tempo e la tecnologia — come in molti altri ambiti del vivere — ha fatto passi da gigante (al punto che è possibile scegliere tra un ampio ventaglio di proposte dedicate alla stimolazione anal-prostatica).
Ma se la tecnologia procede a passo spedito, a che punto è la nostra cultura?
Per rispondere ho deciso di attingere come di consueto alle mie esperienze, oltreché ai racconti e alle testimonianze che da anni colleziono su tutto quel che concerne il sesso e le relazioni. Sono partita guardando al mio passato, spulciando gli archivi della mia camera da letto, e mi sono accorta che anche il mio atteggiamento nei confronti dell’argomento è mutato nel corso del tempo.
La doverosa premessa è che il culo degli uomini, per me, è sempre stato un terreno inviolabile. Nel mio lessico erotico, quell’insieme di norme e trasgressioni che componevano la mia grammatica sessuale, non trovavo proprio la voce “ano maschile”.
Gli uomini erano esseri meravigliosi sprovvisti del suddetto buco, sessualmente parlando. Ovvio che ce l’avevano, che cagavano e che scoreggiavano, ma non era pensabile che essi desiderassero sentirlo stimolato (certo, Rocco se lo faceva leccare, ma Rocco ce l’aveva pure di 25 centimetri, capite, non faceva testo).
Per quanto ne sapevo io, gli uomini bramavano il nostro didietro, certo, ma non erano in alcun modo interessati a sentire il loro toccato, succhiato, penetrato. Giammai. Certe robe piacevano solo ai gay. Quel territorio di nessuno, lo sterminato orizzonte perineale, era per me un continente sconosciuto da colonizzare e, al tempo stesso, il confine oltre il quale non avventurarsi mai (arrivare alle gonadi mi faceva già sentire The Queen of Blowjob e la fellatio con dito-nello-sfintere non era proprio contemplata nel menù).
Quando dieci anni fa sono arrivata a Milano, però, ho scoperto che le cose non stavano esattamente così. Ho appreso che molti covavano la fantasia di essere colmati nel più proibito orifizio, fantasia che di rado trovava appagamento poiché era difficile incontrare qualcuna disposta a farlo (come mi ha raccontato a più riprese il mio amico P. che, invece, voce fuori dal coro, non ha mai fatto mistero di essere interessato alla pratica).
Nelle mie scorribande da giungla del dating metropolitano, ho visto uomini mettersi carponi nella speranza che li sodomizzassi all’improvviso, con uno dei miei sex toys. Altri me l’hanno fatto intendere più sottilmente. Altri ancora, me l’hanno esplicitamente chiesto. Io, però, non l’ho fatto.
Da un lato, nelle avventure di poche notti non si creava la sufficiente dose di intimità; dall’altro, mi faceva un po’ schifo l’idea. Infine, non ero convinta che mi sarebbe piaciuto l’output (conseguente al mio input) e cioè la sensazione, l’immagine, l’esperienza potremmo dire, di un uomo così sottomesso (che già quando gemevano e squittivano come educande alle prime armi, rabbrividivo). L’idea di titillare la loro cripto-omosessualità, insomma, non mi compiaceva a sufficienza.
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Oggi, che sono cresciuta e che ho imparato ad aprire (oltre alle gambe) le mie vedute, riconosco anche un altro aspetto, in questa dibattuta pratica sessuale che è ancora capace di urtare il comune senso del pudore e di risvegliare le nostre più radicate ipocrisie.
Vedo, cioè, che il pegging è capace di ribaltare i ruoli tra le lenzuola, ridistribuendo l’idea di dominio e di sottomissione, di attività e di passività, di abbandono e di controllo. Vedo uomini disposti a spogliarsi dell’armatura machista che li opprime da millenni per esplorare il proprio corpo, sperimentando le zone nevralgiche del piacere senza sentirsi sminuiti nella loro virilità.
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Leggi anche: Guida al sesso anale
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Vedo anche un’utilità empirica, a dirla tutta, grazie alla quale gli uomini possono scoprire quanto sia importante lubrificare ed essere cauti quando si varca l'ano. di qualcuno, mentre le donne possono accorgersi di quanto sia impegnativo, in termini pelvici, avere il ruolo di giver (e concedersi più di buon grado alle posizioni da amazzone, al fine di limitare il rischio d’infarto dei loro compagni di giuochi — ma pure perché è una posizione che ci stimola benissimo, sì, lo sappiamo già).
Vedo nel pegging una prospettiva rivoluzionaria, anzi rivoluzionata, della sessualità, nella quale la coppia è libera di scoprirsi, di svelarsi, di affidarsi all’altro, al di là di qualsivoglia etichetta.
Vedo anche, e questo è l’aspetto per me più interessante, un discorso che si sviluppa sul corpo degli uomini, invece che su quello delle donne. Mi sembra, in altri termini, che sia impossibile parlare di pegging senza parlare del pene (o meglio, del rapporto che i maschi hanno con il suddetto).
Il punto cruciale, infatti, non è tanto che con il pegging le donne possono supplire alla loro “anatomica carenza”, lenendo la freudiana invidia del pene (che comunque non hanno, rasserenatevi), quanto piuttosto che gli uomini finalmente possono ammettere che, tutto sommato, a ben vedere, se così si può dire, a loro il fallo non fa mica così schifo…anzi! (lo so, è sconvolgente, ma è così).
Vi basti pensare che se lo toccano compulsivamente quando sono in pubertà, lo disegnano ovunque, se lo menano per tutta la vita, ne fanno continuo oggetto di vanto, di allusioni, di sfottò. L’esistenza degli uomini è completamente ossessionata dal pene, molto più di quanto la nostra lo sia dalla vagina (che per molte è anzi motivo d’imbarazzo). Il pene è il totem della loro identità, il perno centrale e il tallone d’Achille, nel caso in cui non funzioni a regola d’arte. Ecco, come si può pensare che una vita vissuta all’insegna del pene, sia la stessa nella quale il suddetto diventa oggetto di ribrezzo?
Immagino i miei amici, a questo punto, che scuotono la testa e ribadiscono che a loro la minchia NON piace, e ci credo, va bene. Però bisognerebbe considerare anche il fatto che le transessuali che si prostituiscono fanno grandi affari, e che “trans” è la quinta parola più cercata su Pornhub nel 2018 (le ricerche maschili in proposito sono aumentate del 167%, quelle femminili del 78%).
Bisognerebbe considerare che chiunque abbia un amico gay (almeno uno, non dico tanti), sa che generalmente non sono gli omosessuali ad andare a trans, perché agli omosessuali piace tutto il corpo maschile, dagli addominali ai pettorali, passando per i bicipiti e i glutei (non sarebbero così nazi-palestrati, viceversa). Bisognerebbe considerare anche che le testimonianze delle mistress raccontano di uomini eterosessuali che pagano per essere dominati, sottomessi e, a volte, umiliati (insomma, sostanzialmente che glielo mettano in quel posto).
Tutto questo non lo dico per invitare i gentili signori alla lettura a prestare il proprio deretano a selvagge e immediate deflorazioni. Tantomeno ne parlo per fomentare le donzelle all’inculazione coatta del qualsivoglia maschio capiti loro a tiro. Ne parlo, piuttosto, per segnalare che un discorso sincero su questo argomento, invece che intriso di pregiudizi e luoghi comuni, può essere interessante per tutti e può aiutarci a guardare con maggiore trasparenza chi siamo, cosa ci piace davvero e cosa desideriamo (nel rispetto, naturalmente dei gusti personali che restano pur sempre insindacabili).
Il fatto è che nel sesso non dovrebbero esserci bugie, né paranoie, né inadeguatezze (e invece ce ne sono, tantissime, antiche e sempre nuove). Il sesso è – e dovrebbe restare – un’attività bellissima, che raggiunge la sua massima espressione quando ci permette di essere umani, aperti, imperfetti, nudi e veri. Quando ci solleva dalle paure, quando ci spoglia delle ansie, quando ci lascia un senso esplicito di benessere e libertà. Quando ci consente di esplorare, di cambiare, di tornare a casa e di sorridere insieme delle sorprese incontrate lungo il tragitto.
Se ve lo state chiedendo, e a questo punto il rischio è palpabile: no, non ho mai fatto pegging con nessuno, per ora, e non muoio dalla voglia di farlo. Ma non escludo che un giorno possa succedere, perché ho imparato che nel sesso non bisognerebbe mai dire mai.
Ho imparato che ciò che ci eccita, che ci appaga, che ci spinge dentro il corpo di un altro essere umano, cambia nel corso del tempo, e non è giudicabile, purché rispetti l’unica regola di base, che è il consenso consapevole tra le parti.
E adesso buon sesso a tutti, comunque vi piaccia farlo!